Sono le undici di mattina e Vinicio si presenta al pubblico mantovano con la solita trasandata eleganza: grandi occhiali da sole, barba incolta, capelli arruffati sotto l’immancabile cappello e la giacca portata come un “mangas”, indossando soltanto una manica, per “poter sguainare all’occorrenza la pistola con l’altro braccio” – ci spiega dietro un sorriso sornione l’autore di “Tefteri – Il libro dei conti in sospeso” (Ed. IL Saggiatore, 2013).
Dopo l’apprezzato album “Rebetiko Gymnastas”, uscito lo scorso anno, Capossela decide di oggettivare la sua trascinante esperienza in terra greca nel periodo del tracollo finanziario anche con un libro prezioso, una sorta di taccuino sul quale è riuscito a imbrigliare e fissare voci, suoni e umori di un Paese che cerca il proprio riscatto, attingendo dalle sue origini più vere, più radicate: la musica.
E non stiamo parlando del famoso Syrtaki, creato ad hoc per divenire la colonna sonora del film “Zorba il greco” (1964), ma del più autentico Rebetiko (dal turco rebet, “ribelle”), appunto, che Capossela stesso definisce come “una musica dell’assenza, nata dalla rabbia e dalla nostalgia di un popolo, quello greco-turco, che nel 1922 si trovò sradicato e straniero in patria. Rebetiko è scelta politica. Rebetiko è appartenenza.”
Ed è proprio da questo senso di “appartenenza” che l’autore rimane affascinato, letteralmente rapito.
Ci confida di non aver mai visto il mare nella sua lunga permanenza in Grecia, ma soltanto taverne, luoghi incantati e senza tempo, caldi come un abbraccio, dove lo spirito è chiamato giocoforza a restare per godere appieno dell’emozione intensa che questi posti riescono a trasmetterti.
Così, tenendo in mano un bouzouki a quattro doppie corde, Vinicio ci racconta che attorno ad un tavolo, magari dopo una buona bevuta, saltano fuori argomenti impensabili. Il dialogo con chi ti sta di fronte si fa miniera inesauribile di nozioni storiche ed etimologiche di un popolo.
“È come se durante questa mia esperienza” – ci dice Capossela “avessi registrato l’attività di un sismografo, ne avessi colto le vibrazioni più profonde. Ho lasciato che le mie orecchie ascoltassero tanto, la lingua greca ci dona l’albero genealogico delle parole, ci racconta tantissimo su quello che siamo stati e su quello che siamo”.
È d’accordo anche Nicola Crocetti, editore e fondatore della rivista “Poesia”, nato a Patrasso (Regione dell’Acaia, nella Grecia Occidentale) e poi trapiantato a Milano. La sua è stata una vita dedicata alla traduzione e alla pubblicazione di decine di autori ellenici e rivendica il ruolo centrale che dovrebbe avere il suo Paese natale in Europa.
“È scandaloso il trattamento che la Grecia ha dovuto subire in questi ultimi anni” – tuona con sguardo fiero delle proprie origini. “Ci si dimentica che dalla Grecia è nata la filosofia, la tragedia, la politica e che gran parte del pensiero dell’uomo occidentale è scaturito proprio da qui e da qui si è sviluppato”.
Poi lancia una provocazione per risollevare le sorti economiche di questo Stato “Spread è una parola di origine ellenica, ricorda il gesto di spargere le sementi nei campi. Ecco, se soltanto si dovesse far pagare un dazio ogni volta si usa a sproposito una parola come questa o una qualsiasi altra che abbia derivazione greca, la Grecia probabilmente risolverebbe rapidamente i suoi problemi finanziari”.
Insomma, quello che danno vita sul palco Capossela e Crocetti è un dialogo fra due voci che si accordano fin da subito all’unisono, un dialogo capace di riappacificarci con la parola, ridando ad essa il suo centrico valore e tutta l’importanza che le spetta.
Alla fine si applaude tanto.
I protagonisti e le intenzioni che li animano lo meritano sicuramente.
(Mantova 05/09/2013)
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